Con l’exploit del coworking anche in Italia, diversi professionisti hanno deciso di mettersi insieme per cercare di ammortizzare le spese. Non pochi, oramai, preferiscono condividere gli stessi spazi con altri per svolgere la propria attività. Cosa succede a chi ha aderito al regime forfettario nel momento in cui si ritrova a doversi spartire le spese, ad esempio, per l’affitto di un locale con dei colleghi? Scopriamolo insieme rispondendo ad uno dei quesiti che ci avete posto.
Il concetto di coworking è nato nel 2005 a San Francisco. Il termine è stato sostanzialmente coniato da un programmatore informatico che ha per l’appunto creato il primo locale in comune da condividere con colleghi.
Il “San Francisco coworking space”, dunque, è diventato uno dei primi spazi al mondo in cui diversi professionisti si sono messi insieme per lavorare autonomamente, ciascuno con la propria postazione, connessione e servizi dividendone le spese.
Oltre al costo in comune per l’arredamento, è chiaro che per coloro che lavorano in coworking, rispetto all’ufficio tradizionale, si presentano altre “uscite” da sostenere come il materiale da cancelleria, le bollette e lo stesso affitto del locale. La condivisione offre, quindi, il vantaggio di contenere per il singolo professionista delle somme mensili da affrontare.
Questo modello di lavoro ha preso piede anche in Italia. Per la prima volta, in Italia, è spuntato nel 2008, a Milano, capitale delle nuove tendenze. Dalla Lombardia si è poi diffuso nel resto delle regioni italiane.
Ad oggi i co-workers sono cresciuti velocemente in tutto il Paese. L’Italian Coworking nel suo ultimo rapporto ne ha contato sulla propria piattaforma oltre 700, circa 1 coworking ogni 84.000 abitanti.
Secondo altre statistiche, la maggior parte di lavoratori che ricorrono alla condivisione di spazi, per effettuare la propria attività, sono liberi professionisti. Seguono gli imprenditori, i dipendenti delle grandi società e gli startupper. In Italia, si spende una media di 25 euro al giorno o 260 euro al mese per far fronte alle spese necessarie alla condivisione dei locali di lavoro.
Buongiorno,
il mio dubbio è il seguente. Siamo tre professionisti, tutti in regime forfettario, che condividiamo per lo svolgimento della nostra attività lo stesso locale. Ognuno ha la sua postazione con scrivania, PC e proprie dotazioni.
In comune, abbiamo semplicemente le spese del contratto di affitto e le utenze. Sia il contratto di affitto che le varie utenze (luce, telefono e ADSL) sono intestate a me. Le bollette riportano i miei dati e la mia partita iva. Ogni mese, finora, ho sempre emesso fattura (senza applicare l’IVA ovviamente) ai miei due colleghi, ripartendo i costi dell’affitto e delle varie bollette per le utenze che via via arrivano.
Volevo chiedervi se nel limite dei 65 mila euro annui per il calcolo del regime forfettario rientrano o meno anche tali importi che ricevo dai miei due colleghi d’ufficio e che regolarmente fatturo.
Grazie, Giorgio
La risposta
Caro Giorgio,
non ci sono ad oggi circolari sul regime forfettario che descrivono la casistica da te riportata, sebbene molto frequente ai fini del calcolo del limite di fatturato annuo.
A nostro modo di vedere tali importi che tu incassi per il mero ri-addebito di spese per contratto di locazione e utenze varie non si possono considerare compensi professionali e le somme incassate per ri-addebitare tali costi non costituiscono reddito da lavoro autonomo.
Nella circolare 38/E/2010 (che non si riferisce però al regime forfettario) si afferma, infatti, che il reddito da lavoro autonomo è determinato dalla differenza tra compensi percepiti e spese sostenute; se si ri-addebitano dei costi, in quanto condivisi, tali importi non costituiranno componenti positivi di reddito.
Se tali importi non sono considerati compensi, dunque, non saranno in alcun modo rilevanti per la verifica della soglia dei 65 mila euro annui. Questi saranno invece rilevanti per il collega nel periodo d’imposta in cui li corrisponde per l’uso del locale.
Ecco il video dei uno dei nostri consulenti che parla proprio di questo tema
Curiosità. I costi non deducibili nell’uso in comune dei locali
Sul punto è intervenuta la Corte di Cassazione con una sentenza del 2015 ed emessa nei confronti di un professionista aderente al regime ordinario. Infatti, la Suprema Corte si è espressa sul riaddebito ai colleghi dello studio professionale per l’uso in comune dei locali.
I giudici hanno stabilito che il professionista, nel caso specifico un avvocato, non può dedurre dal suo reddito le spese comuni dello studio senza indicare la ripartizione e l’apporto dei colleghi nell’attività svolta.
Nel caso di specie, l’Agenzia delle Entrate aveva notificato ad uno dei legali dello spazio in condivisione dell’attività un avviso di accertamento, con il quale, venivano tassati circa 30 mila euro a titolo di spese comuni dello studio degli avvocati. Queste, infatti, non erano state ri-addebitate agli altri colleghi, ma dedotte integralmente dal contribuente intestatario delle utenze.
Con la sua pronuncia, dunque, la Suprema Corte ha stabilito che la totale imputazione dei costi a uno solo dei professionisti realizzerebbe una sorta di liberalità diretta, pacificamente non deducibile. In sintesi, i costi non possono essere interamente dedotti dall’intestatario delle utenze. Ognuno deve procedere per sé.
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