“Sbagliare è umano, perseverare è diabolico” è uno degli aforismi più conosciuti al mondo, attribuito a Sant’Agostino, anche se gli scrittori latini in epoca antecedente al Cristianesimo avevano già tratteggiato simili espressioni. E dalla lingua classica deriva anche il termine fallimento. In latino “fallĕre” vuol dire, infatti, ingannare. Dunque, sin dall’antichità, “fallire” è stato un verbo utilizzato per descrivere un comportamento grave. Per secoli, l’insuccesso di un’impresa ha trascinato con sé un’accezione negativa, per l’appunto.
Oggi, però, questa condizione, in cui potrebbe trovarsi un’azienda, sta per essere ribaltata concettualmente. Infatti, se è perdurato, soprattutto nel panorama italiano, un significato di fallimento legato a conseguenze negative per coloro che nella vita sfortunatamente incappano in simile esperienza, in altre realtà planetarie, come quella degli Stati Uniti, si è sviluppata da tempo una cultura propensa a detta situazione. Ma, come molte mode d’oltreoceano, anche questa è già approdata sul Vecchio Continente e pare che anche nel Bel Paese si stia facendo strada il mito secondo il quale è necessario fallire per avere successo nella vita.
Una narrazione in tal senso è quella che elogia l’inno affibbiato alla Silicon Valley “Fallire e farlo in fretta”. Alla paura del fallimento, concepito come qualcosa di cui vergognarsi nella cultura italiana, dunque, si sta sostituendo l’incoraggiamento a sperimentare tale tappa per raggiungere i gradini più alti della società. A nostro parere, invece, fallire, è un lusso per pochi eletti. Cadere fa molto male e i più devono assicurarsi alternative per non sprofondare. Ricordiamoci: FALLIRE NON È UNO SCHERZO!
Guardiamo la realtà. I numeri delle chiusure delle startup raccontano un’altra storia, rispetto alla formula magica “Falliamo per risollevarci”. I dati dell’archivio statistico delle imprese attive (Asia) e relativi al quinquennio 2013-2018, dicono cose ben diverse da quello che, a nostro parere, è un ottimismo insensato. Intanto, mostrano un quadro del tessuto imprenditoriale italiano a dir poco infelice. E non eravamo ancora in periodo di Covid-19. Nel 2018, sono cessate 283.748 imprese e ne sono nate 273.356, oltre 3 mila in meno rispetto al 2017. Quindi, si è abbassata la soglia del numero di coloro che vogliono fare impresa a fronte di chi ha chiuso i battenti.
Dai dati estratti dagli archivi Cerved, invece, si può notare che tra luglio e settembre del 2018 sono fallite 2.291 imprese, con un aumento del 4,2% su base annua. In totale, le procedure fallimentari aperte nei primi nove mesi dell’anno raggiungono quota 7.968 società. Nei primi nove mesi del 2019, inoltre, il numero di fallimenti è aumentato in Valle d’Aosta, Veneto, Emilia Romagna, Toscana, Abruzzo, Molise, Sardegna, Basilicata e Sicilia. Dietro queste società andate a gambe all’aria, ci sono le vite di migliaia e migliaia di persone. Ci sono le loro idee, i loro progetti andati in fumo. Ma non sono gli unici delusi. A questi occorre aggiungere la miriade di creditori che verranno soddisfatti, se tutto va bene, solo in parte. Altri piani non riusciti dunque. Pensare che da una tale cantonata ci si possa riprendere subito, addirittura prevedendo un imminente successo dietro l’angolo, è davvero da imprudenti.
Ma perché si fallisce? Beh, chi ha avuto esperienza nel campo delle startup ritiene che ciò sia strettamente legato al fatto di avere sbagliato i tempi. Idee troppo innovative potrebbero non essere comprese e accolte immediatamente nel mercato. Seguono nelle classifiche sulle cause del fallimento la diminuzione delle risorse economiche e un team non adeguato. Per lanciarsi nel mondo del business, quindi, occorre tanta prudenza. Bilanciare i pro e i contro di fare impresa. Sogniamo sì, ma ad occhi aperti. E prendiamo con le pinze le storie di chi ha scalato le vette più alte diventando il numero uno al mondo subito dopo essere precipitato.
C’è chi si cimenta, poi, nel fare affari divulgando la teoria dei benefici del fallimento. Un’argomentazione che si basa sul presupposto che, nei momenti in cui sembra non esserci una via d’uscita, arriva il colpo di scena. Inoltre, fallire fa parte della vita, perciò, bisogna accettare il fatto che possa essere parte di qualsiasi percorso. Addirittura, è auspicabile che ciò, prima o poi, accada. D’altronde, i fautori di tale dottrina sostengono il noto proverbio “Sbagliando s’impara”. Inoltre, secondo questi sostenitori, il vero fallimento consisterebbe nel non fallire mai.
Charles Pèpin, filosofo francese, ha scritto un libro intitolato: Il magico potere del fallimento. Perché la sconfitta ci rende liberi (Garzanti, 2017) ripreso da molti “guru” del fallimento. La tesi è appunto quella che il segreto della felicità non sia il successo, ma consiste nel fallire appunto. Emblemi di questa teoria sono personaggi famosi, provenienti da universi diversi: letteratura, politica, sport e arte. Per quanto concerne il pianeta dell’impresa viene riportato dai “coach” la c.d. parabola di Steve Jobs. Prima il licenziamento dall’azienda e poi il ritorno, con il conseguente successo della stessa grazie al suo tocco magico, lo hanno trasformato in una leggenda.
Anche in passato il fallimento è stato un tema su cui qualcuno ha costruito delle fortune. Pensiamo al mondo dell’arte contemporanea e, precisamente, degli anni ’90. Infatti, dopo che il mercato dell’arte è crollato trascinando con sé la chiusura di diverse gallerie, la crisi economica, le questioni sociali, sono diventati terreno fertile per nuove correnti. Trent’anni dopo, sono sorti anche i musei del fallimento, diventando delle attrazioni turistiche a tutti gli effetti. Un esempio si trova in Svezia, a Helsingborg, dove vengono esposti prodotti che non sono riusciti a sfondare nel mercato.
In Italia, invece, è sorta una Scuola del Fallimento, strutturata in corsi di gruppo e individuali che si basa su metodologie esperienziali e ludico-immersive. Uno dei motti che si può leggere sul sito dell’istituto recita “Abbiamo anche bisogno di fallire. Fallire ancora. Fallire meglio!”. Il fine dell’insegnamento è quello di diffondere una cultura che non consideri il fallimento un marchio indelebile per abbattere il disprezzo sociale.
Le tesi che considerano il fallimento un’esperienza positiva sono senza dubbio molto affascinanti. Ma occorre tener presente la realtà, come già detto. Certo, non dobbiamo farci sopraffare dalla paura di incrociare nel nostro percorso un evento del genere, soprattutto, se abbiamo deciso di scommettere il nostro futuro sull’attività della azienda che guidiamo. Nell’epoca della globalizzazione, chiaramente, questa paura non è più individuale, ma collettiva. Ci preoccupiamo dell’intero sistema su cui si basa l’economia e un fallimento mondiale, proprio in questo delicato momento, è un’ipotesi da non scartare. Uscire indenni da una pandemia non avrà solo ripercussioni in termini sanitari, ma anche economici.
Il fallimento ha, però, anche delle conseguenze giuridiche e sociali. Per le grandi imprese si prospettano due alternative come regolazione di una crisi: la liquidazione coatta amministrativa e l’amministrazione straordinaria. Ai medi e piccoli imprenditori, invece, è riservata la procedura fallimentare. In Italia, si attende ancora l’entrata in vigore della legge sul fallimento riformata nel 2019. È stato il dl n .23 del 2020 a fare slittare al settembre 2021 la norma, a causa proprio dell’emergenza sanitaria in corso.
Per poter fallire occorre trovarsi nello stato di insolvenza, una condizione in cui vi sono fatti che dimostrano che il debitore non è più in grado di assolvere le obbligazioni. È il tribunale a dichiarare il fallimento dell’imprenditore e le conseguenze che derivano dalla sentenza emessa sono diverse: patrimoniali, personali e processuali. Lo spossamento, in particolare, è uno dei risultati negativi legati al patrimonio. Durante il fallimento, la persona fallita non può esercitare alcune professioni o rivestire alcune cariche. L’imprenditore fallito poi non sarà più legittimato a stare in processo, prenderà il suo posto il curatore fallimentare.
Una volta dichiarati falliti, inoltre, si viene iscritti nel casellario giudiziale civile. Tra gli effetti negativi vi è l’impossibilità di aprire conti correnti bancari ( a meno che non si faccia ricorso all’ “esdebitamento” se si possiedono i requisiti) anche se sono trascorsi degli anni dalla chiusura del fallimento. Inoltre, se si vuole aprire una nuova attività non è semplice ottenere dei prestiti bancari. Dulcis in fundo, il fattore sociale. La crisi economica del 2008 è stata devastante in Itala. Difficile dimenticare il numero di suicidi tra gli imprenditori. Chi si è trovato inghiottito nella spirale della crisi è stato sopraffatto dal senso di catastrofe.
Noi non vogliamo essere catastrofici, ma suggeriamo di tenere a mente il leit motiv “Non cullarsi sul lieto fine”. Certamente, in caso di difficoltà non bisogna fuggire. I giallisti suggeriscono di tornare sul luogo del delitto e guardare le cose per quelle che sono per trovare il colpevole. Se i nostri conti non tornano, da qualche parte avremo sicuramente sbagliato. Perciò, calcoliamo bene il rischio prima di tuffarci in un’impresa.
Non impegniamo troppe risorse, economiche e temporali, subito. Occorre tanta prudenza. E, soprattutto, creiamoci sin dall’inizio delle alternative. Dei piani B o delle scialuppe di salvataggio. Una delle dritte da seguire è quella di cercare di ridurre al minimo gli sprechi aziendali e di cercare di sollevare tutte le criticità del nostro progetto all’inizio del percorso per poter raddrizzare il tiro tempestivamente. Abbiamo messo in atto tutto questo ma le cose peggiorano, che fare? È arrivato il momento della exit strategy. La nostra strategia d’uscita è anch’essa legata ai giusti tempi. Se non vediamo la luce in fondo al tunnel, può darsi che abbiamo imboccato quello sbagliato. Dobbiamo cambiare tragitto il più velocemente possibile. Vogliamo o no un finale da sogno? Allora teniamo presente sempre questo: fallire non è uno scherzo!
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